Una nota di Massimiliano Borelli
«Che cosa si vede, negli psicopanorami di Daniele Maggioli? Il parapiglia della vita, si vede: quel parapiglia che è la vita, come scriveva Sanguineti (che di Senzatitoli se ne intendeva), in un’estrema sua filastrocca. E perciò quelli di Maggioli sono panorami mobili, che vanno di qua e di là, per i lungomare della Riviera, e in quegli entroterra amari, di malinconia dura, verso Torriana o Perticara. E son panorami umani, certo, di tipi e miti d’oggi; miti d’accatto, s’intende, di tipi di un’umanità perduta e sgangherata, in dimissione. Ma son pure panorami veri, di una geografia nascosta, scoperchiata alla rovina, esposta al crollo, illuminata dal crepuscolo. Come se quella cicuta che canta, Maggioli, se la fosse davvero bevuta, per trovare un suo linguaggio nero, le sue cocciute parole della luna, per riscoprire daccapo la realtà e comporre così i suoi diorami mentali, le sue foreste di allucinazioni. E come se con spirito alcolico, sulfureo, da anarchico diavolo di balera, avesse raccolto dal fondo del bicchiere un dito di dolci nostalgie nervose, come quelle che stringono alla gola nei lenti giorni di pioggia d’estate, quando guardi fuori, e non hai niente di speciale da dire, né da fare, se non mettere il microfono alla brina, immaginare il profilo di una duna. Ed è in quei momenti di spleen bagnato, quando si è circondati dai soliti oggetti domestici – la poltrona il giradischi la televisione, i sogni i libri e i piatti da lavare –, che tutto sembra estraneo, e viene per reazione la voglia di uscire, di andare a ritrovare il muschio sulle rocce, a risentire l’odore delle bacche, a rifarsi gli sbucci sui ginocchi. Perché se è vero che c’è il baratro, lì fuori, sotto la pioggia, tanto vale allora ballarci sopra il tip tap, sul filo del funambolo, guardando in giù, con occhi fatti di neve e bocche stupite a forma di zero. E sentire, nel frattempo, tutto il vento che c’è.»
Massimiliano Borelli
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